Il complesso processo artistico di Simon Callery (Regno Unito, 1960) esamina i limiti della pittura ed esplora le sue qualità fisiche e ambientali. Riconsiderando il rapporto tra l’opera d’arte e lo spazio, le sue creazioni monocromatiche sondano le possibilità plastiche della superficie pittorica. Apparentemente semplici, le sue sculture-pitture sono il risultato di un lungo processo creativo suddiviso in più fasi, all’interno del quale ogni singolo aspetto – sia tecnico che estetico – è studiato nei minimi dettagli.
Le tele di Callery non sono dipinti nel senso classico del termine, ma presentano diverse peculiarità che emergono fin dalle prime fasi del processo creativo che ne è alla base. L’artista inizia a dipingere grandi pezzi di tela, imbevendoli di colla di pelle di coniglio e pigmento puro. Queste tele vengono poi poste a diretto contatto con diversi elementi fisici della città, come – nel caso delle opere realizzate a Roma e presentate da 1/9unosunove nel 2019 – rovine archeologiche, parchi di periferia e le acque del fiume Tevere.
Questo “contatto” viene registrato sotto forma di segni e perforazioni nelle tele, che l’artista riporta nel suo studio, dove le taglia e le cuce insieme per dar loro la forma finale che, pur non rinunciando all’effetto pittorico, cerca di costruire dipinti con profondità spaziale. Questi wallspine paintings e contact paintings, come li chiama Callery, derivano dal paesaggio urbano e ne attestano ogni volta le condizioni specifiche, non attraverso una rappresentazione convenzionale, ma in termini fisici diretti. Per l’artista, questa esplorazione delle qualità fisiche della pittura è un modo per riflettere e rispecchiare l’esperienza materiale del paesaggio e dello spazio circostante. È un’esigenza che si avverte anche nel modo in cui i suoi dipinti vengono installati, lasciando volutamente in mostra elementi non convenzionali, come spazi empirici, inserti in legno, appendici, ecc. spazi empirici, inserti in legno, fili sospesi e strati di tela.