She said no
Il primo rifiuto, la prima delusione sentimentale con tutta la sua intensa e insostenibile amarezza: è a questo delicato momento che i quattro giovani artisti tornano con la memoria ma soprattutto con il cuore. Un momento di rottura in cui la difficile e necessaria presa di coscienza di se stessi, dei propri desideri, capacità e limiti, è legata a doppio filo ad un inevitabile confronto con l’altro, in particolar modo con l’altro che ci ha preceduto e ispirato.
Nella costante ricerca di una propria individualità e cifra stilistica l’artista si misura e spesso si svincola dal linguaggio dei padri, dall’ambito culturale che lo ha nutrito, in un misto di riconoscenza verso qualcosa da cui ha attinto e preso forza, ma che allo stesso tempo avverte come un peso da cui liberarsi, un debito da estinguere.
Le negazioni dei quattro artisti traducono così le loro individualità, le loro ossessioni: nei confronti delle icone moltiplicate all’infinito, negando così l’unicità insita nel concetto stesso di ‘icona’ (Conrad Ventur); nei confronti del neon, materiale usato dai padri del concettuale, costretto a contorcersi, cancellarsi o negare anche la possibilità di esprimere niente che vada al di là di una iterata negazione (Stefan Brüggemann); nei confronti dei nastri delle cassette contenenti le registrazioni costrette al silenzio (Gregor Hildebrandt) oppure del nulla, trasformato in realtà attraverso la creazione di una mitica rock band tedesca degli anni Settanta (Jamie Shovlin).
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