Ref.
a cura di GIGIOTTO DEL VECCHIO
Cio’ che da sempre caratterizza il processo creativo dell’artista è il suo vissuto, l’esperienza, le visioni, la conoscenza, che può accomodarsi all’interno dell’opera sfruttando più e differenti modalità. Può essere velata allusione, può rimandare attraverso l’atmosfera del lavoro, può esistere quale citazione o riproposizione netta. Ognuna di queste dimensioni racchiude comunque all’interno quella possibilità di scatto assimilativo, percettivo, nella lettura dell’opera che l’appoggiarsi al riferimento inevitabilmente comporta.
Nel caso di Ref. – titolo preso dalla forma abbreviativa di “reference”, elemento esplicativo che incontriamo nella lettura quando ci imbattiamo in una citazione – gli artisti vedono il loro lavoro fortemente caratterizzato dal riferimento, inteso quale omaggio o confronto diretto con la fonte, vero e proprio mito con cui confrontarsi o dialogare. Tutti gli artisti in mostra citano, seppure attraverso modalità e spunti differenti, direttamente. Tutti tranne uno: Jonas Mekas. Il suo è un caso diverso, “di andata e ritorno”, di far riferimento ma anche di essere riferimento.
Nader Ahriman è il pittore della filosofia e dei viaggi nella tradizione metafisica della forma e del pensiero, Jonathan Monk rappresenta l’amore per l’esperienza dell’arte concettuale e dei suoi protagonisti attraverso il ripercorrere idee, momenti, gesti fondamentali citati direttamente (Alighiero Boetti, Michelangelo Pistoletto, Sol LeWitt), David Wojnarowicz attraverso le foto della serie “Arthur Rimbaud in NY” immagina di fare un viaggio con Rimbaud in quei luoghi estremi, periferici, abbandonati propri, forse, del grande poeta francese ma da lui mai conosciuti e che Wojnarowicz, indossando la sua maschera, metaforicamente gli fa conoscere.
Josephine Pryde fa la parodia di Christopher Williams, ma mentre l’artista americano attraverso una fotografia precisa e da catalogo esalta “l’oggetto nobile” attraverso la sua storia ed il suo design (le macchine fotografiche Leika o la “Valentina” della Olivetti, mitica macchina da scrivere), la Pryde attraversa lo stesso processo estetico per esaltare la non nobiltà di un “hi fi car rubato”, mantenendo lo stesso rigore e formale e compositivo.
Con Matthew Antezzo il riferimento si sposta verso la politica e la sua spettacolarizzazione più estetica. Cos’è se non questo il ritratto del subcomandante Marcos? Figura che ha deciso di fare la rivoluzione aggiungendo un tocco di lucida consapevole eleganza alternativa. La scelta di indossare il passamontagna e di non rendere mai visibile il suo volto non è solo dettata dalla necessità di non essere riconosciuto ma diventa sottile elemento di vanità e piacere.
Jonas Mekas si riferisce alla struttura del cinema decostruendola, ma si ritrova nel tempo anche ad essere fondamentale riferimento per un cinema anche ufficiale che riconosce in lui un eccezionale protagonista dell’ironia e della sperimentazione. All’interno di un discorso di fuoriuscita dai canali sotterranei, siamo al principio degli anni “60, in nome di un nuovo cinema americano, si pone la figura di Jonas Mekas, poeta, critico e film-maker lituano, che con il proprio lavoro ed impegno, ha saputo legittimare l’intero pensiero underground, diventandone una delle figure più rappresentative. “Con la partecipazione a Ref. ho inteso accennare al cammino intellettuale e spirituale di questo artista, soffermandomi su quei particolari aspetti registici che lo portano ad essere il massimo rappresentante del genere diaristico” (Gigiotto del Vecchio). Il video in mostra, Lonesome day, è un momento intimo e domestico in cui Mekas si fa riprendere in una esilarante gag danzereccia.
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