adam thompson
Adam Thompson preferisce allontanarsi dalla creazione vera e propria, utilizzando oggetti ritrovati che provengono da una grande varietà di fonti e luoghi. Senza una logica predeterminata o un preciso codice concettuale che ne determinino l’inclusione o l’esclusione, questi oggetti vengono collocati nello spazio in gran parte inalterati, con una economia di strumenti che non aggiunge nulla ad un preesistente stato di industriale sovrabbondanza e nel più ampio rispetto della loro integrità. Le tensioni insite in ciascun lavoro vengono amplificate attraverso il dialogo con tutti gli altri e dal valore loro attribuito in quanto parte di una esposizione artistica.
Portando con sè evidenti tracce di decadenza, collasso e fallimento, gli oggetti che Thompson utilizza rimandano al momento in cui il logorio ambientale prende il sopravvento e ciò che rimane è il detrito, mostrando la regressione alla loro natura originaria. In questo modo i temi dell’obsolescenza, della regressione e dell’esaurimento attivano quel potenziale che risiede nell’effimera comprensione della materia. Rianimando questi materiali e detriti culturali, Thompson propone un esame sul concetto stesso di creatività e sulla relazione dell’umanità con la natura attraverso una esperienza materica piuttosto che linguistica.
‘In un certo senso, non c’è niente di nuovo qui. È un umile processo in cui si raccolgono e si compongono oggetti trovati, come farebbe un archeologo, un metodo che potrebbe essere descritto semplicemente come composizione di ciò che già esiste. Niente è trasformato da un intervento diretto. Questo comporta una conversazione più ampia sulla creatività, in cui il consumatore/soggetto affronta ingiunzioni constanti e ostinate sull’essere creativo. Io voglio che questa riduzione stimoli la discussione sull’importanza dell’invenzione come requisito dell’opera d’arte’ (Adam Thompson).
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